lunedì 25 luglio 2011

"Amy: 27 Anni Vissuti Liberi"

di Federico Mello






Morta Amy Winehouse. È la prima volta che risulta prevedibile” scrive Frankie Hi Nrg su Twitter. Ha ragione Frankie, l’originalità di Amy lascia un vuoto enorme nella musica contemporanea.

Quella della sua morte è una notizia che, in un afoso sabato d’estate, arriva come un fulmine e si propaga in ogni anfratto dell’infosfera tramite i social network.

Molti su Twitter ricordano come sia morta a 27 anni. La stessa età in cui ci hanno lasciato, in epoche diverse – anche dal punto di vista musicale – Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin, Kurt Cobain. Tutte icone del rock, tutti miti delle loro generazione (e non solo) e decisi a vivere da persone libere, come volevano, come se ogni giorno fosse l’ultimo.

Alcuni, anche online, dicono che era una notizia prevedibile: “Se l’è cercata”; “E’ stata semplice selezione naturale”, “Un talento e una vita buttati nel cesso”, scrivono anche alcuni dei nostri lettori su questo sito. Eppure, c’è chi fa un passo in avanti: “Un esempio da imitare per tutti i disperati. Che voce… che talento…” scrive Waldemar sempre nei commenti.

Ecco, io la penso proprio così. Di Amy straordinaria era la forza delle sue canzoni e dei suoi testi, la passione che buttava in ogni nota, in ogni acuto. Mi chiedo: avrebbe avuto la stessa passione con una vita regolare? Avrebbe avuto la stessa sensualità distruttiva e irresistibile senza decidere di consumare tutta la sua vita in una potentissima fiammata fuori da ogni consuetudine e ogni imposizione?

Spesso l’esistenza di noi umani è diversa da quella che immagina Giovanardi. E ognuno deve essere libero di vivere come vuole. Se poi una disperazione straziante regala emozioni a uomini e donne di tutto il mondo come ha fatto Winehouse, non c’è nulla da aggiungere. Parlano solo le canzoni di una grande artista vissuta giusto il tempo di lasciare un segno prima di tornare Back to black. Rest in peace."


In morte di Amy Winehouse, impossibile “mettersi in riga”

di Domenico Naso


Nessuno si aspetti di leggere, in queste righe, espressioni del tipo “voce graffiante” o “talento sopraffino”. Non lo diremo semplicemente perché la grandezza vocale e musicale di Amy Winehouse era così fottutamente evidente da non aver bisogno di approvazioni critiche o elogi standard buoni per tutte le stagioni. E non troverete nemmeno tirate moralistiche sul suo stile di vita, sulla sua tendenza all’autodistruzione. Una delle regole più importanti (e a volte più dolorose) dell’esistenza umana è, o almeno dovrebbe essere, quella secondo la quale ognuno fa della propria vita quello che vuole, anche consumarla velocemente come fosse una birra ghiacciata in una giornata afosa d’estate, da tracannare tutta d’un fiato prima che si riscaldi troppo.

Amy Winehouse era così. Non poteva, o non voleva, “mettersi in riga”. Era alcolizzata, drogata, persa in un mondo tutto suo fatto di gorgheggi per lei perfetti nella loro imperfezione anche sotto l’effetto di sostante stupefacenti, di liti con il pubblico, di storie d’amore maledette e di fughe per tentare di salvarsi l’anima. Ma nessuno può permettersi di giudicare, di puntare il dito, di dire, sospirando e arricciando il naso: “Che vita buttata, che talento sprecato”. Certo, assistere alla morte a 27 anni della migliore voce degli ultimi tempi fa rabbia, soprattutto a chi la musica la ama e cerca quotidianamente un’oasi di qualità nel desolante deserto della mediocrità conformista dell’industria discografica. Ma il sentimento di rabbia e frustrazione si ferma di fronte all’individuo e alla sua assoluta libertà di sbagliare e di farsi del male, almeno fino a quando non danneggia anche gli altri.

E allora doliamoci della morte di Amy Winehouse ma non commettiamo i due tipici errori in cui si incappa in casi del genere: non la bolliamo come eccessiva e stupida milionaria viziata dedita all’alcool e alle droghe; non ne facciamo un’icona da venerare, un modello di vita da seguire. Non era un modello, la bruttina ma talentuosa Amy. Lo sapeva e ne era persino fiera. La sua vita alcolica e tossica non la rendeva orgogliosa né la abbatteva. Era la sua vita, punto. Ci sono cose che non si possono cambiare, ci sono sentieri accidentati lungo i quali siamo obbligati a camminare, magari sperando in cuor nostro che prima o poi si spalanchi davanti ai nostri occhi un largo e confortevole viale alberato. Per Amy non è stato così. Il sentiero si è interrotto e il viaggio è finito. Non dipendeva da lei. Tantomeno da noi.

In queste righe abbiamo tentato, sperando di esserci riusciti, di non essere patetici o scontati. Non per una narcisistica ricercatezza e originalità, per carità. Ma semplicemente perché Amy Winehouse era tutto fuorché banale, tutto fuorché conforme alle “regole” della società. Era semplicemente Amy Winehouse, la cantante che ha fatto la sua fortuna gracchiando talentuosamente al mondo che non voleva andare in “rehab “ e che sapeva perfettamente di non essere buona (“You know, I’m no good”). Era lei, prendere o lasciare. Noi, come milioni di altri fan in giro per il mondo, avevamo deciso di prenderla così com’era e di apprezzarne il talento, sopportando le snervanti scenate sui palchi di mezzo pianeta. Ma lei, che di farsi prendere non ne aveva nessuna fottutissima voglia, ci è sfuggita di mano per l’ultima volta. E forse è quello che voleva più di ogni altra cosa. Rest in peace, Amy."



Da:

http://www.ilfattoquotidiano.it/


Jean-Francois Dupuis

Nessun commento: